In scena al Teatro della Corte di Genova, dal 7 al 12 novembre 2017, Il Borghese Gentiluomo, per la regia di Filippo Dini, sottolinea l’attualità del messaggio di Molière, ma manca di equilibrio e manifesta una distanza forse eccessiva tra il Seicento e i giorni nostri. Leggi la recensione.
“Il Borghese Gentiluomo”, eccessiva la distanza tra il Seicento e l’epoca contemporanea
Troppo contrasto. Troppa distanza tra il Seicento e l’oggi, tra costumi d’epoca e contemporanei, tra linguaggio arcaico e forbito ed espressioni scurrili dei giorni nostri. Questa l’osservazione più spontanea per “Il Borghese Gentiluomo” di Molière in scena al Teatro della Corte di Genova, prodotto dallo stesso Teatro Stabile in collaborazione con la Fondazione Teatro Due di Parma.
La regia è di Filippo Dini, anche attore protagonista di notevole bravura recitativa e presenza scenica nei panni di Monsieur Jourdain, borghese ricchissimo pronto a tutto pur di potersi fregiare del tanto agognato “titolo” che gli assegni un posto nel rango della nobiltà.
Molière è un maestro e ha ragione. “Il Borghese Gentiluomo” è un capolavoro scritto nel 1670 che evidenzia e deride pesantemente la distanza incolmabile tra due classi sociali lontane anni luce: borghesia e nobiltà. Pienamente condivisibile il desiderio del Nostro di farsi beffa dei nuovi arricchiti in cerca di ogni stratagemma per godere di onorificenze e posti altolocati, e di ridicolizzare i tanti di “sangue blu” che affollavano la corte di Luigi XIV senza sapere come arrivare a sera.
Forza caricaturale oltre misura e un linguaggio troppo lontano dall’epoca di Luigi XIV
E anche Dini ha ragione. É vero che gli arrampicatori sociali indossano anche abiti del XXI° secolo. Che ogni epoca ha chi aspira solo alla gloria e al prestigio e chi, realmente ricco, vive giornate vuote di contenuto. Ma la versione del regista genovese pecca di eccessi. Eccessivi risultano alcuni accorgimenti di cui, in tutta sincerità, non si sentiva il bisogno. Le improbabili espressioni multilingua del maestro di scherma con occhiali scuri e giacca di pelle (Ivan Zerbinati), la fortissima cadenza del sarto e del suo aiutante dalla capigliatura punk (gratuitamente affidati all’interpretazione femminile di Valeria Angelozzi e Ilaria Falini), la palese provenienza dall’Europa dell’Est della serva Nicole/Ilaria Falini e le braccia “multitatuate” di Roberto Serpi, il servo Covielle.
Si tratti dell’abbigliamento, dei dialoghi o della scenografia, troppe volte lo spettacolo orchestrato da Dini stride fortemente all’occhio e all’orecchio dello spettatore per l’inverosimile compresenza di elementi appartenenti ad epoche enormemente distanti tra loro. Ne deriva una forza caricaturale oltre misura.
È soprattutto nel secondo atto che il linguaggio si allontana totalmente dall’epoca di Luigi XIV, dimentico del Seicento francese che i personaggi sono chiamati a rappresentare. I toni risultano dimessi a tal punto da condurre verso una vera e propria farsa contemporanea. Solo i modi del Conte Dorante (Davide Lorino) ricordano il secolo di Molière e del Re Sole. Del resto, la borghesia arricchita non userà mai un linguaggio forbito né indosserà vestiti eleganti (il lussuoso abito di Jourdain non è altro che lo spunto per una sua continua presa in giro) perché non potrà mai elevare il proprio status. Il nostro “Borghese”, si rivela talmente “piccolo” da non essere nemmeno in grado di tener testa alla moglie (una straordinaria Orietta Notari), né di saper accogliere con galanteria la Marchesa Dorimène (Sara Bertelà), l’amante del Conte.
E il Conte? É il “migliore amico” di Jourdain, “perché parla di me al re, nella sua camera da letto!”. Ecco finalmente svelata la vanagloria del protagonista! E così quel caro amico gli spillerà quattrini a più non posso, mentre della sua goffaggine, ignoranza, tracotanza e ingenuità potrà approfittare Cléonte/Ivan Zerbinati, perdutamente innamorato di sua figlia, grazie alla complicità dei servitori. Umili ma onesti fino in fondo (al contrario di tanta nobiltà) i tre sapranno architettare un abile piano che condurrà Lucile Jourdain (Valeria Angelozzi) tra le braccia del suo legittimo pretendente.
Un’opera teatrale divertente che poteva però dare di più
Dal punto di vista recitativo, oltre a Filippo Dini e Orietta Notari spicca la figura di Marco Zanutto, in forza in questi ultimi anni alla “The Kitchen Company” di Massimo Chiesa, di casa al Teatro della Gioventù del capoluogo ligure. Come sempre notevole la sua capacità di fare del proprio personaggio (in questo caso il maestro di filosofia) il vero mattatore della risata. Eppure anche i momenti comici hanno talvolta qualche difetto: gli interpreti indugiano infatti troppo a lungo su alcuni spunti di ilarità. Accade allo stesso Zanutto e a Dini durante la lezione di ortografia (o meglio di fonetica) e ancora a Dini e Serpi nel dialogo tra Jourdain e l’improvvisato interprete di lunga turca.
Insomma, peccato. Per lo spettacolo, ma anche per il “Borghese Gentiluomo” Jourdain, perché ha voluto affidarsi a falsi amici e maestri senza scrupoli confidando di poter giungere in alto, lui che, da solo, ha saputo offrire in realtà l’esempio migliore del garbo degno di un vero esponente della nobiltà. Ricordate cosa diceva il suo biglietto indirizzato alla Marchesa per far colpo sulla sua persona?
Recensione a cura di Giulia Grondona
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Tag: opera teatrale, Recensioni, spettacoli teatrali Filled Under: Colpi di scena Posted on: 10 November 2017